“Il manichino è un oggetto che possiede l’aspetto dell'uomo, ma senza il lato movimento e vita. Il manichino non è una finzione, è una realtà, anzi una realtà triste e mostruosa. Noi spariremo, ma il manichino resta. Costruendolo, gli uomini lo hanno destinato a determinate funzioni: per i pittori, i sarti, le vetrine dei negozi di abiti, gli ammaestratori di canipoliziotto, le scuole di borsaiuoli, ecc. Non è la finzione della morte, della non esistenza che noi cerchiamo sulla scena. Se gli uomini chiedessero al teatro tale finzione il manichino sarebbe forse stato una consolazione, ma noi chiediamo invece al teatro la finzione della vita, gli chiediamo una vita irreale, senza principio né fine”. Con queste parole l’artista Giorgio De Chirico (1888 – 1978) spiegava, nell’anno 1942, l’elemento del manichino, essere neutro ed impersonale, protagonista di molti quadri metafisici.
L’uso dei manichini nell’arte, in realtà, risale al 1400 quando il pittore toscano Fra Bartolomeo li utilizzò per la prima volta come modelli per lo studio della figura umana nei suoi dipinti. Si trattava di fantocci dalle sembianze umane, realizzati in legno snodato e collegato da incastri. Col tempo, il manichino è diventato uno strumento comune negli studi degli artisti, ma ha avuto la sua massima fortuna nel periodo neoclassico, quando i pittori e gli scultori iniziarono a sentire la necessità di copiare il gesto e la posa da un modello artefatto, vivificato poi a contatto con il "vero".
Ma è stato solo nel Novecento che il manichino, fino ad ora relegato a semplice strumento di studio, è uscito dall’ombra delle stanze dei pittori per diventare protagonista assoluto. Senza più filtri, né trasposizioni. Questo percorso si è concretizzato nell’opera di giorno De Chirico ed in particolare nel cosiddetto periodo “ferrarese” (giugno 1915-1918). Erano gli anni de Il trovatore (1917), di Ettore e Andromaca (1917), de Le Muse inquietanti (1918). Un rinnovato interesse di De Chirico per i manichini si è manifestato a cavallo tra il 1935 e il 1938, ovvero durante la sua permanenza negli Stati Uniti ed in particolare a New York. “Nelle vie di Nuova York predominano le vetrine; – scriveva De Chirico – c'è il senso dell'esposizione ovunque: nelle vetrine di Nuova York si svolge giornalmente tutta la storia dell'umanità. Ho visto vetrine di grandi negozi della 57ª strada in cui erano manichini raffiguranti donne eleganti sedute in mezzo ad una specie di ricostruzione antologica dei miei quadri con cavalli antichi, frammenti di colonne, tempi, portici e prospettive. Gli americani hanno il culto della vetrina, della cosa esposta”.
La consacrazione del manichino a oggetto d’arte si deve alle correnti contemporanee. Basta pensare ai celebri manichini di Remo Bianco, quali strumenti di riflessione “sulle cose elementari della vita”, sui problemi essenziali della natura umana. Proprio la staticità del manichino, l’assenza della vita, evidenzia nell’arte di Bianco i momenti di maggiore drammaticità della vita.
In tempi più recenti ricordiamo i manichini di Nani o a quelli irriverenti di Maurizio Cattelan. Per Nani, pseudonimo dietro cui si nasconde il nome dell’imprenditore alberghiero pesarese, Alessandro Marcucci Pinoli, il manichino è metafora dei problemi dell’umanità, esorcizzati attraverso le plastiche colorate e lo sguardo inesistente. Per Cattelan, invece, i manichini sono i protagonisti di un’allucinazione collettiva che fa rivivere in piazza XXIV Maggio, a Milano, gli orrori della società contemporanea. L’opera, dal titolo emblematico “Untitled”, è stata presentata nel 2004 assieme alla Fondazione Trussardi ed è costituita da tre manichini di bambini in dimensioni reali appesi con una corda all’albero più antico della città. Questa immagine è diventata ormai parte dell'immaginario collettivo, ed è costantemente citata e utilizzata come riferimento nei dibattiti e nelle discussioni sull'arte contemporanea e sulla concetto di "censura".